Tra sport, spettacolo, politica e cultura, Gianni Minà è stato l’emblema del racconto della vita che si è manifestata attraverso tanti personaggi che ha intervistato. Un maestro di giornalismo capace di insegnarti come narrare l’anima di chi ti sta di fronte. Sì, Gianni Minà era tutto questo e anche qualcosa di più. Ho avuto la fortuna di conoscerlo e intervistarlo. Di quella volta ho conservato il ricordo indelebile del suo stile, della sua classe e del suo mettersi a tua disposizione, nonostante il divario tra intervistatore e intervistato fosse davvero incolmabile. Ricordo che in quella occasione ero emozionato come un principiante, non lo nascondo, ma dovevo farmi coraggio perché quella era un’occasione da non perdere dal punto di vista professionale e umano. E’ stato come salire su quel pullman che, se lo perdi, per te non passerà mai più. E oggi, a distanza di molti anni, rileggendo quella bellissima intervista che pubblicai sul mio libro intitolato “Tra interviste e altro”, posso dire di avere conosciuto una persona speciale, capace di portarti per mano in una storia che è il cammino verso la conoscenza dell’umano. Tante sono state le interviste che ho fatto dopo essere stato a “scuola” di Gianni Minà, in quell’incontro breve ma ricco di giornalismo vero con radici culturali profonde, che si sono diramate in me senza quasi accorgermene. Francesco Morini, Pietro Anastasi, Michelangelo Rampulla, Lamberto Sposini, Massimo Giletti, Mario Giordano, Mino Taveri, Cristina Chiabotto, Gianfranco Jannuzzo, Alfredo Trentalange e tanti altri, hanno fatto seguito all’intervista fatta a Gianni Minà. E oggi, per ricordare la sua figura di uomo e grande giornalista, ho pensato di pubblicare proprio quella intervista che parla di lui a cuore aperto. Buona lettura!
Intervista a Gianni Minà, ovvero quando il giornalismo è pura cultura
Direttore, come nasce la sua passione per il Toro?
“E’ un virus di famiglia. Mio padre mi portava a vedere il Grande Torino al mitico stadio Filadelfia, da lì questa grande passione che è scemata solo negli ultimi anni.”
Quale ricordo le è rimasto degli anni in cui è stato direttore di Tuttosport?“Ricordo che scrivevo già di un altro calcio che non era più quello della mia adolescenza, perché i tempi erano cambiati. Ricordo pure che il giornale subì un periodo di seria crisi economica perché il maggior azionista della società editrice di allora, si ammalò. Quella fu un’avventura che ci fece maturare l’idea di inserire nell’organico della redazione, una decina di giovani giornalisti che poi sono diventati delle firme importanti. Direi che questo è il mio ricordo più bello di quel difficile momento, che rappresentò anche il secondo periodo di soggiorno della mia vita a Torino”.
Tenuto conto di questi lunghi anni di buio granata e del fatto che lei vive ormai stabilmente a Roma da cinquant’anni, la sua passione per il Toro ha subito un’involuzione a livello di interesse?
“No, l’interesse è immutato, tanto è vero che il Toro è il mio pensiero della domenica, anzi del sabato, visto che gioca in Serie B. Quando sono all’estero chiamo mio fratello che abita a Torino e la prima cosa che gli chiedo in dialetto piemontese è: “Cosa a la fait al Tor?” (cosa ha fatto il Toro?) e, purtroppo, in tutti questi anni la risposta non è stata sempre esaltante, tutt’altro! Comunque si può cambiare tutto nella vita, meno la squadra del cuore. E il Toro mi è rimasto nel cuore. ”
Lei ha seguito otto mondiali di calcio e sette Olimpiadi oltre a decine di campionati mondiali di pugilato, fra cui quelli storici dell’epoca di Muhammad Alì. Qual è il suo ricordo in merito?“Muhammad Alì, che ha da poco compiuto settant’anni, lo ricordo come una grande persona, un essere umano importante con un grande cuore ed una grande intelligenza. Un uomo che ha inciso nella società in cui viveva, per essersi battuto a favore della legge sull’obiezione di coscienza in un paese che di guerre, solitamente, ne fa molte. Grazie a Muhammad e al suo caso, è cambiata, negli Stati Uniti, una legge che, prima di lui, fior di intellettuali avevano cercato di promuovere, senza riuscirvi. Io ricordo le trasferte con Alì e posso dire di avere vissuto un’avventura grande, dal punto di vista giornalistico e umano, unitamente a quella delle lunghissime interviste con Fidel Castro. Sono stati momenti importanti della mia vita che si intrecciano con quelli vissuti seguendo grandi artisti come, i Beatles, i Rolling Stones, Chico Buarque de Hollanda o Robert De Niro, che poi è diventato un fraterno amico.”
Nel 1981, lei è stato insignito dal Presidente Sandro Pertini, del premio Saint Vincent come miglior giornalista televisivo di quell’anno. Cosa si prova in simili circostanze?
“Intanto devo dire che quel premio non me lo aspettavo perché veniva da prestigiosi direttori di giornali italiani, ed io non mi reputavo ancora maturo per un simile riconoscimento. In quell’anno avevo esordito con Blitz il programma della domenica pomeriggio, che andava in onda su Rai 2 ed era in concorrenza con la mitica Domenica In di Pippo Baudo. Noi di Blitz, proponevamo uno stile di televisione diversa, dove invece della festa familiare, ospitavamo la domenica pomeriggio personaggi come Fellini e la Masina, Sergio Leone, Robert De Niro, Ennio Morricone, ed altri di questo livello. Facevamo cioè puntate a tema su cinema, teatro, musica e c’era un’ambizione in noi e nella Rai di allora, di fare spettacolo non escludendo la cultura. Un’ambizione che oggi non c’è più. Peccato, perché questo volere imitare a tutti i costi, la televisione commerciale, ha creato un repentino decadimento dell’offerta televisiva. Noi, allora, ci siamo divertiti molto, perché abbiamo avuto la fortuna di essere presenti con questo mestiere, nell’epoca in cui si poteva osare. Con la trasmissione Blitz, ho avuto la possibilità di interagire con personaggi veri e, tra tutti, ricordo con affetto Enzo Bearzot, scomparso da circa un anno che mi regalò la possibilità, dopo la vittoria ai campionati mondiali di calcio del 1982, di raccontare nel mio programma televisivo i particolari di quella grande impresa. Bearzot era un uomo schivo e non amava molto apparire, tuttavia in quell’occasione si presentò assieme alla squadra. Quello fu un pomeriggio memorabile, perché oltre agli azzurri c’erano tanti protagonisti dello spettacolo. Ho un ricordo davvero grande di tutte le puntate di Blitz, che mi diedero soprattutto l’opportunità di raccontare persone straordinarie, non manichini insulsi come spesso succede adesso.”
Calcio e pugilato, due mondi diametralmente opposti che hanno caratterizzato il suo interesse professionale e umano. Perché?
“Perché la boxe è uno sport duro, in cui chi vince conosce la sofferenza di chi perde e quando alla fine i due pugili si abbracciano, sanno quanto dolore hanno dovuto sopportare per arrivare in fondo al match. Per questo mi è sempre piaciuto il pugilato, anche se, come tutte le cose, pure questa disciplina sportiva ha dei lati discutibili. Il calcio è invece una passione che, come dicevo prima nutro da sempre, ma ormai mi interessa molto meno per la sua spregiudicatezza.”
Tra le sue innumerevoli interviste a grandi personaggi del nostro tempo, qual è quella che le è rimasta maggiormente nel cuore?
“Molte mi sono rimaste nel cuore, perché in ognuna di loro era l’uomo che si rivelava prima di ogni altro aspetto. Una intervista indimenticabile è quella con Massimo Troisi e Pino Daniele, che ricordo con affetto come tutte quelle della serie intitolata “Storie”, l’ultimo lavoro che ho fatto con la Rai prima di essere epurato. Siamo stati tanti gli esclusi dalla televisione, ancor prima dei casi Biagi e Santoro, ma il risultato è stato l’impoverimento, anzi l’annientamento della tv servizio pubblico. Forse tutto questo è stato voluto.
Sappiamo che da qualche anno dirige la rivista letteraria “Latinoamerica e tutti i sud del mondo”. Che cos’è esattamente?“E’ una rivista di geopolitica che edito da dieci anni. Di fatto esisteva già da vent’anni, poi il Prof. Santarelli, un insigne storico che l’aveva fondata, mi chiese di non farla morire. E così ci provai. In questa rivista racconto il continente latinoamericano dal punto di vista politico e culturale, che sta prendendosi la sua rivincita da tante prepotenze subite dal Nord del mondo.
Signor Minà, quando tornerà a Torino?“A Torino, come dicevo prima, ho mio fratello che abita alla “Crusetta” (Crocetta, un quartiere di Torino) come si dice in dialetto piemontese, e vengo a trovarlo almeno una volta l’anno. Da piccoli andavamo a giocare all’Oratorio salesiano Don Bosco di Via Piazzi negli stessi anni in cui il mio amico Giancarlo Caselli frequentava Valsalice. Una delle volte che sono venuto a Torino, alcuni anni fa, sono andato con mia moglie e le mie figlie, allo stadio a vedere giocare il Toro del povero Cimminelli. Quel giorno incontravamo la Triestina. Vincemmo 1 a 0 grazie a un calcio di rigore, ma fu un match povero dal punto di vista tecnico e spettacolare. In quell’occasione mia figlia, che allora aveva sette anni, si era avvicinata a mia moglie per dirle: “Mamma, ma perché papà e lo zio si appassionano tanto a questi giocatori. Il Toro mi sembra una squadra di pippette”. Con il tempo ho cercato di farle capire che quello che lei aveva visto, non era il vero Toro, il Toro della leggenda.”
Salvino Cavallaro