“La traccia del fuoco”, “Magie oscure”, “L’altro Dio”, “ I luoghi del Toro”, “Il mistero del serpente piumato”, “Canzoniere 1978-2018: Ultime grida dall’inferno”. Tra romanzi, poesie, ricordi e passioni calcistiche, Claudio Calzoni mette in luce una personalità particolare, tutta da scoprire. Nelle sue pubblicazioni leggiamo di scie di fuoco dietro la morte di tante persone, oppure di magie oscure che si identificano tra delitti e misteri, o ancora ci pone il quesito di cosa sarebbe accaduto se il Dio che ha cambiato la storia dell’uomo, fosse stata diversa. Una letteratura quasi tormentata e piena di interrogativi che ti pone dinanzi a un percorso fatto di interiorità per cercare di dare a tutto ciò che è terreno un suo significato ben preciso. Introspettiva ed esistenzialismo, quasi che porsi delle domande e mettersi continuamente in discussione, fosse un passaggio obbligato di vita. Ecco, crediamo proprio che Claudio Calzoni nella sua veste di scrittore, autore di tante poesie e riflessioni di vita, faccia emergere il tratto di un personaggio dalla natura sensibile e al contempo piena di insoddisfazioni su tutto quello che avrebbe potuto essere della sua vita e non è stato. Tormenti interiori di un appagamento mai raggiunto, tipico di un’anima sempre alla ricerca di qualcosa che non trova. Tutto questo lo trasmette molto bene attraverso le righe delle sue fatiche letterarie che egli chiama più semplicemente: “La mia passione di scrivere per divertirmi e tenere la testa impegnata per non soccombere”. E non è per caso che ho voluto intervistare questo personaggio particolare, forse unico nel suo genere, che mi ha ispirato una sorta di viaggio nell’anima per scoprire quegli angoli più nascosti che traducono in sintesi tutto il suo pensiero filosofico e umano.
Claudio, che cos’è la vita?
Innanzi tutto, buongiorno a te e a tutti i lettori. Come ben sai non sono un filosofo, non voglio nemmeno far finta di esserlo, e tutte le risposte che ti darò, saranno, spero, semplici e comprensibili. La Vita, secondo me, è l’unica vera “proprietà” degli esseri viventi, la fiamma che alimenta il nostro fuoco, l’acqua che disseta il nostro cammino, ed è un peccato sprecarla. Certo, occorre essere molto concreti nel guardare quello che il destino ci ha riservato. La nostra vita è frutto di una immensa lotteria: essere “qui ed ora”, “avere” o “non avere” questo o quello, non è certamente un merito, un diritto acquisito o una immensa sfortuna. Siamo figli dei nostri genitori e del caso. Cento, mille, diecimila anni o chilometri di distanza avrebbero dato alla nostra nascita ed al corso della nostra vita una strada, una impostazione diversa, gioie e disgrazie declinate in altre mille possibilità. Per questo mi ritengo un privilegiato, ho avuto una vita bellissima e piena di emozioni. Sono felice d’essere cresciuto nella Torino degli anni “sessanta”, in una famiglia unita ed impegnata. Mio papà aveva una officina di elettrauto e mia mamma faceva la maglierista in casa. Cercavano di migliorare le loro condizioni economiche con il lavoro ed il sorriso. Io crescevo guardandoli lavorare, con mille interessi e passioni, andando a giocare in Piazza Rivoli, di fronte alla casa in cui i miei nonni erano portinai. Ancor oggi ringrazio di aver visto da vicino la povertà, sentito i racconti terribili del passaggio del fronte tedesco nelle campagne intorno a Bologna dai miei nonni paterni, che avevano perso tutto tra le fiamme della loro casa. Ringrazio di aver assaporato i silenzi, carichi di tensione e disprezzo, riguardanti la “Grande Guerra” di mio nonno Michele che, richiamato dalla Libia nel 1915 era stato prigioniero degli Austriaci due anni, soffrendo umiliazioni e fame inenarrabili. Ringrazio d’aver avuto tanti amici nel quartiere, d’aver fatto il mio percorso scolastico (perito meccanico con licenza di poeta maledetto) e poi subito il militare, d’avere visto Torino in ostaggio del terrorismo ma in continua espansione. Ringrazio d’aver passato molti giorni d’estate e d’inverno in officina da mio padre e di aver iniziato a lavorare appena finita la leva, nonostante fossi già iscritto all’Università di Lettere. Sono felice d’essermi impegnato nel negozio di elettrodomestici come imprenditore a ventidue anni, d’avere affrontato molte difficoltà ed avere avuto soddisfazioni incredibili, Non ho mai smesso di cimentarmi nelle mie passioni, ho sempre scritto (prima poesie ora preferisco i romanzi) ed ho suonato e scritto canzoni, condividendo tutto con i miei amici. Ho fatto il giornalista, curato pubblicazioni ed assaporato la gioia di conoscere e divedere amicizie con molti personaggi del calcio e vista la mia fede granata sono orgoglioso di avere avuto anche la possibilità di scrivere un libro sulla mia squadra del cuore (“I luoghi del Toro”, Yume editore). Ancor oggi, visto che sono troppo vecchio per il Rock and roll ma troppo giovane per morire e prendere la pensione, lavoro con piacere, cimentandomi ogni giorno in nuove imprese. La vita è gioia e disperazione, certo, ma il dovere morale è onorarla nel lavoro e nell’impegno. Credo di non aver mai smesso di farlo.
Quanto sono importanti per te le emozioni?
Si vive di emozioni. Certo c’è chi è più sensibile, chi le sa riconoscere ed ha tempo e voglia di assaporarle, di lasciarsi prendere e coinvolgere. Nella mia vita da commerciante e da appassionato di letteratura ho cercato di non perdermi nulla, di prendere al volo tutto quello che potevo, e di trasmetterlo, con empatia, a chi mi è vicino, a chi mi ascolta, a chi mi legge. Un sorriso, uno sguardo, un gesto e una carezza possono restare nella mente se collegati a un grande movimento del cuore, dell’anima. Una nota, una canzone, una parola, un verso, una foto, una stretta di mano. Basta accorgersi delle cose che ci succedono, dentro e fuori, per emozionarci. Vivo, viviamo tutti, per essere travolti dalle emozioni, anche da quelle che non sono così belle e gradite alla nostra anima. Come grandi alberi nei campi al vento freddo d’inverno siamo soli ad affrontare la vita, e le emozioni, sono le radici che ci legano alla terra.
E’ vero che il gusto perso dell’ottimismo ti fa vedere sempre il nero della vita? Perché?
Non so se sono veramente pessimista. Se lo fossi, forse, non mi alzerei tutti i giorni con la voglia di realizzare i mille progetti che mi tengono sveglio la notte. Purtroppo, cerco di non illudermi più, cerco di vedere le cose dal lato più realistico. Ricordo a sedici anni d’aver fatto un sogno particolare ambientato nel 1985. Nella grande sala del parlamento di Stoccolma ricevevo dalle mani del Re di Svezia il Premio Nobel per la Letteratura, primo venticinquenne al mondo ad essere insignito di tale riconoscimento. Nel momento della consegna però i miei pantaloni stretti, in un delirio quasi fantozziano, si strappavano, lasciandomi in mutande davanti a tutti. Ecco, praticamente, nella vita avrei potuto fare di più, ottenere forse più successo e riconoscimenti, frequentare compagnie peggiori, abbassarmi a compromessi, essere più scaltro e egoista, meno chiaro ed onesto. A volte penso d’essere stato il figliol prodigo che ha disperso i suoi talenti e poi torna a casa senza nulla in mano. Ma non rimpiango nulla. Ho combattuto tanto e non sempre ho vinto, anzi. Oggi, in questi tempi così particolari, tutte le problematiche legate alla Pandemia hanno generato paure e reazioni pessimistiche in individui che hanno sempre ostentato sicurezze, ottimismo e fiducia assoluta nelle proprie possibilità. La corazza che mi sono costruito nel tempo, in quest’anno così folle e disperato, mi è servita, e mi ha aiutato a mantenere la barra dritta.
Tu sei passato attraverso un percorso difficile di vita. Pensi che le circostanze vissute abbiano causato la difficoltà di vivere, oppure in te c’è la tendenza naturale ad abbatterti?
Si nasce così, e si vive per come si è fatti. Proviamo a cambiare, a diventare diversi adattandoci ai fatti, alle persone, al caso, ma il gioco che dobbiamo giocare è quello, il recinto in cui siamo cresciuti ci ha costruito ed abituato così. Chiamiamolo destino. I fatti poi, accadono, e ci troviamo coinvolti, sia consapevolmente, sia contro la nostra volontà. Non è vero che tutto quello che succede intorno dipende solamente da noi, dall’atteggiamento che abbiamo nella vita. A volte è solo sfortuna, a volte la volontà di altri, altre volte è il fato, ma i bastoni tra le ruote del nostro carro arrivano improvvisamente e ci bloccano, ci fanno cadere. La vita non mi ha sempre sorriso, è vero. L’errore che mi rimprovero è di non aver capito dove finiva la salita ed iniziava il dirupo; di non aver riconosciuto, prima di vederli in faccia, chi, per diletto, invidia, superficialità, dovere, non aspettava altro che darmi la spinta. Quando inizi a rotolare è difficile fermarsi.
“Grazie amico mio…non ho alcun merito, se non quello di divertirmi un po’ e tenere la testa impegnata per non soccombere”. E’ una frase che ricorre in te ogni qualvolta ti si fa un complimento su ciò che hai scritto, fatto, pensato, manifestato. Perché c’è sempre in te questo eccesso nello sminuire ciò che fai? Non pensi che nella vita ci siano già gli altri a farlo nel sottovalutarti?
Non amo molto i complimenti, anche se, quando li riconosco sinceri, mi fanno un grande piacere. Non sono abituato a fare le cose per me. La mia grande soddisfazione è (credetemi) rendere felici gli altri. Chiamatela deformazione professionale, dopo 40 anni di commercio, di relazioni continue con clienti che diventavano amici, di colloqui, di interazioni con tanta gente. Ho avuto rapporti con persone di tutte le estrazioni sociali, ho imparato ad alimentarmi dei sorrisi e della soddisfazione del prossimo. Se quello che ho proposto è piaciuto, se ha risolto un problema o ha interessato il mio diretto interlocutore, ho avuto il mio piccolo successo, la mia piccola gratificazione ed il lavoro, anche se pesante e oneroso, si è trasformato in divertimento. Questo succede, anzi è amplificato, nel mio modo di vedere il mestiere (la passione mai remunerata) di scrittore e giornalista. Se la mia pagina, la poesiola, l’articolo, il romanzo sono stati letti, compresi e apprezzati dal lettore, la mia missione è compiuta. Non voglio sminuire quello che faccio, ma non devo nemmeno esaltarlo, se alla gente non piace. Se piace, allora, sono spronato a farlo ancora meglio, con più attenzione e ricerca, preparazione e cura. Dagli altri posso solo imparare. Del resto, chi mi poteva fare male, in altri tempi, ha già colpito. Oggi, che il viale si sta accorciando, ho già difficoltà a pensare a me stesso ed ai miei cari, che, credetemi, sono ancora molto più importanti di tutto il resto.
Che significato dai all’umiltà?
Non so se l’accettare i propri limiti, confessare le debolezze, mostrare i difetti, comprendere le naturali imperfezioni sia una manifestazione di umiltà. Se è così sono anche io della partita. Stare su uno scalino più basso, nascondersi al fondo della sala, aspettare a prendere la parola, a volte non è null’altro che opportunismo. Ho conosciuto persone famosissime che facevano dell’umiltà, quella vera, quella d’animo, una loro regola di vita. A pensarci bene aver raggiunto il successo, anche per loro, non deve essere stato facile. La lotta è dura ed i colpi sono forti, quindi non posso affermare che chi si umilia è destinato a vincere. Occorre avere il rispetto di sé stessi e della propria vita, della professione, della reputazione e soprattutto della serenità dei propri cari. Il mio secondo libro di poesie si intitolava “Io non sono Nessuno”, e la doppia negazione non era lì per caso. Al contrario, non sopporto i vanitosi, i saccenti, quelli che sanno tutto ed hanno la soluzione per ogni problema in tasca. Non sopporto chi ti fa pesare la differenza, chi ti tratta, e sono tanti, da inferiore. L’unica soddisfazione, un po’ cattiva, è che troveranno, come è naturale, qualcuno più furbo e più scaltro di loro e dovranno abbassare, prima o poi, la testa e la cresta.
La malinconia, un dolce momento di abbandono oppure la necessità di vivere giornate con il forte pensiero di ciò che è stato?
Vado a cercare sul vocabolario. “Stato d’animo di vaga tristezza, spesso alimentato dall’indugio rassegnato, addirittura compiaciuto…” La malinconia è l’arma del poeta, il rifugio dell’anziano, la stanza chiusa dell’adolescente che sogna il primo amore. Una canzone di un vecchio juke box, un gol di Pulici nel 1972, una partita sulla neve da piccolo, con il pallone sgonfio che ti batte sul naso. La malinconia è una spiaggia bretone con la bassa marea, la pioggia al Maracanà di Rio mentre gioca il Flamengo, un mojito alla Bodeguita del Medio di Cuba, come Ernest, più di Hemingway. La malinconia è vedere i tuoi figli passeggiare con la mascherina, stare fermi seduti a sentire i virologi in tv e non aver più reazioni, sentirsi rassegnati, accettare il distanziamento sociale. Momenti e sensazioni che, qualcuno, forse i più sensibili, penso i più fortunati, possono riconoscere ed assecondare e capire, come un gesto, una tazza di the o un bicchiere più forte. La prima sigaretta, quel bacio rubato al portone, la neve sulla statale, la passione travolgente sui sedili dell’auto di papà, l’Abarth rossa dal cofano nero lucente ed il carabiniere spaventato che ti puntava il mitra per chiederti i documenti, il mare di Sicilia, la notte fredda in montagna, le stelle cadenti, il ponte da fare il salto, quel banco dell’università galeotto come il libro di Paolo e Francesca. La malinconia è il trucco del poeta, il diario da andare a cercare, la pagina da sfogliare ogni notte, quelle vecchie fotografie sbiadite, da tenere in mano. Mamma mia. Quante cose, quante pagine, quanta vita.
Pensi che nella vita le persone che riescono a non somatizzare i momenti difficili, siano più fortunati di te che invece ti fai ferire nell’intimo della tua anima?
Non so, non ho mai provato a immedesimarmi negli altri, nemmeno in chi mi vive a stretto contatto, quindi non posso nemmeno pensare quali siano le reazioni dei viventi agli eventi che li coinvolgono. Certo non penso d’avere nessuna dote particolare, non credo d’essere speciale. La mia vita, forse, non è stata così facile come sembra, ma certo non è stata più difficile di tante. Lo dicevo prima, sono fortunato d’aver vissuto e, visto come si erano messe le cose nella mia testolina, sono felice d’essere ancora qui.
So che oggi, dopo il triste percorso di vita che ti ha visto crollare e passare poco più di un mese all’interno di una casa di cura, spesso ricordi giornate forse inenarrabili per senso di inutilità. Tutto ciò non ti sprona a lasciarti alle spalle quell’involucro di solitudine e di iniquità del mondo?
Quei giorni, ormai lontani più di tre anni, sono stati un’esperienza particolare nella mia vita piena e movimentata. Durante il ricovero ho tenuto un fitto diario, di cui ho già raccolto le pagine. Diventerà, spero, grazie all’interessamento del bravissimo attore Enrico Mario Bianchi, un bel monologo teatrale. Stare vicino al dolore, alla disperazione, alla malattia, è stata una tragica, forse necessaria, occasione di crescita e di rinnovamento. Ero esausto, sconvolto dagli impegni e dalle difficoltà delle relazioni interpersonali e del lavoro, annichilito da eventi che mi avevano demolito ed avevo perso la bussola, ritrovata poi, con grandi difficoltà e sacrifici enormi, anche economici, nei mesi successivi. Ho dovuto stravolgere la mia vita seguente, ricominciare da zero ed affrontare le vere difficoltà di una ripresa senza appigli, senza amici o possibilità finanziarie, contando solo sull’affetto di familiari sconvolti. Non so se ce l’ho fatta, non so se è veramente tutto alle spalle. So che al freddo delle camerate, tra le urla di qualche paziente e gli sguardi non certo amichevoli degli altri, tra infermieri e dottori, ho ricostruito la mia anima e ritrovato, forse, i valori essenziali della mia vita.
Claudio, che cos’è l’amore?
L’amore è la linfa che ci dona la vita, che va dalle nostre radici al ramo più alto e più fresco che abbiamo. L’amore è l’unica cosa per cui merita vivere. Sono Padre, Figlio e Uomo. Non so se sono capace di amare ma, come tutti, ho la necessità di farlo. Le difficoltà legate alle differenze generazionali non sempre ti fanno sentire all’altezza, non sempre le espressioni, le parole, gli atteggiamenti sono quelli giusti per dimostrare l’amore che si prova, ma tentare non nuoce mai. Se poi decliniamo l’amore in funzione dell’innamoramento allora mi trovi totalmente invischiato. Sono innamorato da sempre, vivo nella follia adolescenziale, rotolo nelle passioni di un momento e di una vita intera. Amo la musica, le mie chitarre, il flauto traverso che suonavo nel gruppo. Amo le donne, l’arte, la poesia, la pittura, lo studio. Amo leggere, viaggiare, passeggiare da solo in questa città cosi bella e misteriosa. Amo condividere i miei sogni, le mie incertezze, le paure e le gioie, amo scrivere, creare e passare le notti al computer. Amo lavorare, essere utile a chi mi ha dato fiducia. Amo la vita, così tanto d’averla rischiata.
Se potessi rinascere cosa faresti di diverso nella vita?
Non si può tornare indietro nel tempo, non si può cambiare quello che è successo. Le porte girevoli che non si sono aperte, i treni che sono passati e che non abbiamo preso, il ghiaccio che ci ha fatto scivolare prima di sciogliersi, hanno fatto il loro dovere, hanno definito il nostro percorso. Ogni notte, i volti, le parole, i momenti ritornano nitidi e chiari nella mente, almeno per come li abbiamo vissuti. Se avessi rimpianti o rimorsi da raccontare non sarei qui a rispondere, piangerei i miei errori in silenzio. Mi manca in realtà una piccola vendetta da compiere. All’esame di Maturità (luglio 1978, ITI Meccanica di Precisione) un professore esterno di Italiano giudicò le nove pagine del mio tema su Ungaretti, Montale e Quasimodo una emerita stupidaggine e mi diede un bel tre, mettendo a rischio la mia promozione. Durante l’orale cercò di umiliarmi e mi salvai con i denti e le unghie, facendo un figurone, riconquistando la sua fiducia e la promozione con un voto decente. Promisi a lui, a me stesso, ed ai miei professori allibiti dalla situazione, che gli avrei fatto avere una copia del mio primo libro. Il mese dopo partii per la leva, a ottobre mi iscrissi all’Università di Lettere. Nel 1997, all’uscita della mia prima pubblicazione, non riuscii più a risalire a quel professore. Ecco, questo è il mio più grande rimpianto: non aver conservato, sul taccuino dei cattivi, quel nome.
Nascere è davvero la cosa più bella della vita?
Vivere è la cosa più bella della vita. Stare bene, in salute e sereni, è la priorità. Interagire con gli altri, con generosità, umanità, rispetto e soprattutto amore, è necessario. Avere interessi, uno scopo, una fede, una via da percorrere è fondamentale. Nascere è casuale, morire è doveroso. Ma tutto il resto è vita…
Non trovi che raccontarsi sprigioni l’anima e la mente, nell’intento di farti sentire meglio?
Come il lettore avrà capito, se ci ha seguiti fin qui, scrivere per me è una vera passione. In tutti i sensi. Raccontare le mie emozioni, le mie storie, è una delle cose che amo più fare. Quest’anno, così particolare, nelle lunghe giornate in cui siamo stati costretti a rimanere chiusi in casa, molti di noi, travolti dalla noia, dalla malinconia e dalla novità, hanno ritrovato piaceri dimenticati, quali la lettura, la riflessione o la gioia di scrivere. Molti amici hanno approfittato della clausura per dilettarsi nel racconto scritto, nella confessione poetica, nella creazione artistica (pur di non fare bricolage o ginnastica si fa di tutto). Mai gli editori hanno ricevuto tanto materiale. Io stesso ho esagerato, pubblicando tre romanzi da aprile a novembre (scrivendo tutti i giorni per almeno due ore). Che poi si stia meglio dopo aver passato giornate sulle proprie pagine, non so. C’è chi scrivendo sfoga tutti i suoi istinti, chi si stanca e chi si deprime. Personalmente scrivo, nonostante il grande pubblico non mi conosca, per il piacere di farmi leggere.
Parlare o ascoltare un amico in difficoltà. Quali delle due cose prediligi?
Ascoltare non è facile. Occorre stare in silenzio, e prestare attenzione. Spegnere il telefonino, chiudere i social, la posta elettronica e i motori di ricerca. Ne siamo ancora capaci? Con le parole, con le interazioni personali ho sempre convissuto. Ma parlare di me, al vento, non mi interessa più. Fossi capace e sincero starei ad ascoltare l’amico, avvisandolo dei pericoli e metterlo in guardia, ricordando gli errori che ho commesso nemmeno troppo tempo fa.
Per finire Claudio. C’è qualcosa di te che la gente non conosce, non sa, e che ti farebbe piacere sapesse?
Sotto la mascherina mi sono fatto crescere un po’ di barba, dicono mi dia un’aria più autorevole. In questo periodo di clausura mi sono mancate tante cose: le conferenze, le presentazioni dei libri, le serate con gli amici, le sessioni in sala prova, le comparsate in televisione, gli abbracci, le notti in giro per la città. Vorrei scrivere ancora, soprattutto riuscire a far leggere i miei libri ad un pubblico più vasto, non certo per diventare ricco o famoso. Mi farebbe piacere solo fare divertire i miei lettori, farli entrare nel film della mia produzione letteraria. Se poi i miei libri diventassero dei best seller sarei felice per il mio editore, e per gli amici che mi hanno dato fiducia, come te, carissimo Salvino. Un abbraccio, con tutto il cuore.
Salvino Cavallaro