Non c’è dubbio che nel romanzo di G. Albano, “Alle porte dell’alba”, nonostante il titolo poetico e benaugurante, ci sia tutta la crisi dell’uomo moderno, quella crisi che già si profilava alla fine dell’Ottocento e che si sarebbe via via allargata nei primi decenni del Novecento, in concomitanza con gli eventi tragici che avrebbero travolto il nuovo secolo.
Questa crisi, com’è noto, si dispiega nelle opere degli scrittori “decadenti” e, poi, in quelle di letterati, artisti e filosofi “esistenzialisti”. Dunque, bisogna tener conto di questa cornice culturale per entrare nel romanzo e per capire la filosofia di vita del protagonista.
Ci si trova davanti a un’opera complessa e compatta, “piena” del protagonista, Luca Montelli, che coincide con il narratore (si tratta, dunque, di un narratore autodiegetico) e che, come l’Ortis del Foscolo, appare, fin dalla prima pagina, votato alla morte e immerso nello sconforto: “Credo di non appartenere a questo mondo” è, infatti, l’incipit dell’opera, e, poche pagine dopo: “Rimango in questa sorta di mondo crepuscolare ripensando ai giorni della mia vita, prima che scivolino anche i ricordi nell’oscurità totale” (p. 34).
Luca Montelli è uno scrittore di successo, che si sottopone a una continua autoanalisi, alla ricerca di pezzi di vita da ricomporre in un quadro unitario e significativo. Egli ha un’intensa vita interiore ora che la malattia ha affinato la sua intelligenza e sensibilità, ma questo può diventare anche tormento, perché getta luce sugli errori del passato, che Luca, narcisisticamente, aveva commesso e attraversato con leggerezza: “Prima ero in buona salute ma sconoscevo il vero senso della vita. Questa debolezza fisica è diventata la mia forza. La malattia è diventata la mia intelligenza e ho rivalutato la mia vita che procedeva confusa, intrisa di meccanicità. Sono stato toccato malamente dalla sorte, la degradazione del mio fisico riesce a farmi amare a volte anche gli altri malati, gli infelici, gli indifesi” (p. 177).
La narrazione, quindi, si snoda su due piani temporali che si intersecano, evidenziando la notevole perizia narrativa dell’Autore: si passa, infatti, in modo naturale, senza disarmonie,dal presente al passato e viceversa, in una trama imbastita di innumerevoli ricordi, “agonia di memorie” (p.66), che affiorano alla coscienza del protagonista, trasformandosi, talvolta, in rimpianti, ma che, nonostante tutto, lo tengono legato alla vita: “Io sto riuscendo a vivere, per quanto assurdo possa sembrare, per i ricordi che battono dentro di me come un altro cuore” (p. 220).
Ѐ straordinario come il presente, pur così fragile ed effimero, si dilati, nella continua ricerca di senso da dare all’esistenza e nel perseguire il sogno di completare l’ultimo romanzo, come se, nonostante tutto, Luca Montelli avesse il potere di piegare il tempo alle sue ultime, irrinunciabili esigenze.
Figura complessa, dunque, quella del protagonista, uno scrittore-filosofo che richiama personaggi di matrice decadente: per raffinatezza, sensualità, amore per la musica e la letteratura, e per quella cornice di malattia e morte in cui, di solito, essi sono incastonati. La morte aleggia sulle pagine del libro, la sua ombra ha sempre accompagnato Luca, che ne ha preso coscienza fin da quando, ancora giovane, alla ricerca di un libro di Beckett, guardò “dalle finestre della biblioteca la luce scarna e fatua” e l’odore dei libri gli fece pensare alla sua “fine precoce, come un presentimento” (p.93). Un presagio di morte avrebbe letto anche nel dipinto, citato dal suo amato Sartre, “La morte del celibe”, che rappresenta la desolante solitudine di un uomo vissuto solo per se stesso (p. 64).
La mente corre alla contemplazione della morte del principe di Salina, protagonista del “Gattopardo”, di Tomasi di Lampedusa,allorchè egli, stanco, si allontana dalla grande sala gremita del palazzo Ponteleone e si rifugia nella biblioteca “piccola, silenziosa, illuminata e vuota”, dove si sofferma a contemplare una copia della “Morte del giusto”, di Greuze.
“Perché si muore?”, Luca se l’era chiesto anche di fronte al corpo esanime del padre, come il pastore errante del Leopardi lo chiede alla luna, che forse sa, “che sia questo morir, questo supremo/scolorar del sembiante, /e perir dalla terra, e venir meno/ad ogni usata, amante compagnia” (“Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”).
La letteratura, dunque, non dà risposte, non offre salvezza, anzi, se ne rileva anche il fallimento, nella misura in cui essa ha allontanato dalla vita reale il protagonista, incapace di valutare il dono d’amore di una donna, Marie, desiderosa di avere un figlio da lui, e nulla, si sa, è più struggente di ciò che si è perduto. In quel tempo, scrivere era tutto per lui, ma la malattia gli ha insegnato che nulla può sostituire la vita vissuta. Così, più volte, nel libro, torna, inesorabile, il rimpianto: “Avrei dovuto spendere meglio i miei anni, frequentando meno biblioteche e offrirmi più alla vita” (p.102). Le biblioteche, tuttavia, sono nel destino di Luca, a cominciare da quando, ancora giovane studente,frequentava la biblioteca scolastica di Alassio, fino alla scelta di scrivere una tesi di laurea su “La storia delle biblioteche a partire dal ’500” (p. 194).
Ma, addentrandosi nella conoscenza del protagonista, sorge il dubbio che la letteratura sia per lui un alibi che mascheral’inadeguatezza alla vita e, come per tanti personaggi dannunziani,essa è messa in luce proprio dal rapporto fallimentare con una donna: così è, ad esempio, per Andrea Sperelli, protagonista del “Piacere”, un inetto, che cela la sua inettitudine dietro lo scudo dell’estetismo, mentendo anzitutto a se stesso; così è anche per Giorgio Aurispa, improbabile superuomo protagonista del “Trionfo della morte”.
Luca riflette molto sulla vita e la percepisce come una finzione, una “invenzione astratta”, mentre, “la verità esiste nei sogni, nell’immaginazione” (p. 77). Egli, dunque, ha una sensibilità poetica, e in parecchie pagine del libro è usato un linguaggio poetico: “Ammiro, scostando appena le tende, il mare, che ritengo sia un breviario utile a comunicare con Dio” (p. 74); “Mi trascino in silenzio fra queste mura tinteggiate con colori pastello e la mia piccola gloriosa sofferenza; e voglio credere che, quando scenderà la notte, almeno le stelle patiscano per tutte le ingiustizie del mondo” (p. 104); “Col tempo e col male che mi attanaglia, ho persino addomesticato e reso mansueti i miei pensieri, fino a spegnerli quando sono molto stanco, come si fa con una lampada”(p.91).
Ma il nostro protagonista è appassionato anche di filosofia e fa appello all’indifferenza per dominare gli eventi della vita; meditare, inoltre, è una sorta di rivincita del pensiero sulla stessa morte. Egli tiene a portata di mano i “Pensieri” di Pascal, di cui rilegge le considerazioni sulla morte contenute nel pensiero “233”. Fra l’altro, vi è scritto: “L’uomo è infelice. Si annoia perché questa è la sua natura, anche quando non ce n’è alcun altro motivo. Ed è così superficiale che, pur pieno di mille cause essenziali di noia, si lascia divertire dalle più piccole distrazioni, come un biliardo e una pallina da colpire.
Infinito nulla” (p.116).
Siamo al tedio esistenziale, all’inesorabile “male di vivere” della modernità, abitata da antieroi smarriti, perplessi, sospesi in assenza di punti di riferimento e consapevoli della precarietàdell’esistere.
Il pensiero corre a Leopardi, Dostoevskij, Moravia, ma anche a Camus e Sartre, per i temi della solitudine, dell’angoscia, dell’assurdo, della consapevolezza del nulla. Luca, infatti, vive stretto nella morsa di un passato largamente fallimentare sotto il profilo dei rapporti umani e un futuro sbarrato dalla fine inevitabile e vicina. E, tuttavia, non viene meno nel romanzo di Albano la nostalgia della vita, l’opporsi al nichilismo, persino una possibilità di trascendenza, che consente al protagonista, in prossimità della morte, di intravedere “l’alba”.
È da notare che il pathos è nelle cose, nella situazione, ma la prosa è elegantemente pacata, distesa, rallentata, in un romanzo pieno di minuziose, realistiche descrizioni, non solo di stati d’animo, ma anche di ambienti ed oggetti, quasi una siepe, un argine contro il nulla; il ritmo narrativo lento tende a stemperare la cruda realtà del male e scrivere è uno squarcio nella condizione drammatica dell’esistere, un varco. La sofferenza, poi, matura non solo l’uomo, ma anche l’artista: “Mi accorgo che prima di questo percorso di dolore ero al confronto uno scrittore dilettante” (p.29).La sofferenza fa anche sentire a Luca, che era apparso fragile ed egocentrico, il dolore degli altri, e, in un impeto di nuova compassione e solidarietà, reclama per tutti gli uomini il diritto a “una parte di vita eterna” (p.65).
Egli, rimasto solo, alla fine, con le “cicatrici” della memoria (p.221), capisce dolorosamente che nessun capolavoro può compensare la perdita di un amore lasciato morire né sostituirel’abbraccio di un figlio al quale è stata negata l’esistenza.
Ora Luca è davvero pronto ad “aspettare l’alba”.
Maria Lizzio