Raccontare la guerra. Un’impresa difficile che paralizza le mani, il cuore e il cervello, mentre rende fragili lo sguardo della morte. Più volte cerchiamo di descrivere i momenti che sconvolgono per la crudeltà di visioni che toccano il limite della resistenza e ti rendono insofferente persino verso il genere umano che è il tuo simile. Ma ciò che riesce davvero difficile narrare è lo sguardo impaurito dei bambini che con un piccolo zaino arrancano stancamente sulla strada del non sapere dove andare. Strade senza un obiettivo ben preciso che si percorrono tra il suono tumultuoso delle bombe, delle mitragliatrici, dei carri armati, tutti pronti a sparare a bruciapelo nel tentativo di fare una carneficina. E mentre l’odore acre della polvere da sparo si accompagna a quello della morte, i bambini mostrano coraggio e confusione. Scappare, andare via, ma dove? Con chi? Visto che molti di loro sono rimasti soli perché mamma, papà e magari fratello e sorella sono già stati uccisi. Gli sguardi sono impauriti, terrorizzati. Occhi che non sanno neanche più piangere, perché la confusione è tale che in massa si va verso non si sa dove, magari a cercare un posto in cui le bombe non facciano tremare la terra, che non facciano crollare case e palazzi e dove la gente possa stare nel proprio angolo di casa senza passare la vita a nascondersi in quegli angusti e tetri sotterranei che illudono la protezione al suono angosciante del coprifuoco. Sono traumi che non potranno più essere superati nella loro vita. Sono bimbi che camminano, che tendono la mano e sono stanchi, tristi sguardi che parlano di delusione di un mondo che li ha messi a dura prova. Per questo i loro occhi insegnano a noi adulti che il mondo lo abbiamo rovinato noi stessi, e che tutto quello che di brutto sta accadendo non è altro che il seme dell’odio che non morirà mai. E’ l’orrore della guerra voluta da chi non pensa che tutto un giorno finisce, che nulla resta di noi ai posteri, se non la crudeltà disseminata per la mania di grandezza. “Ognuno di noi ha una data di scadenza” – dice Gianluca Vialli – “Non so quando la luce potrebbe spegnersi. Oggi so che ho il dovere di comportarmi in un certo modo nei confronti delle persone, di mia moglie, delle mie figlie, perché non so quanto vivrò. Quindi ti dà questa opportunità di scrivere le lettere, di sistemare assolutamente le cose. La malattia non è esclusivamente sofferenza. Ci sono dei momenti bellissimi. La malattia ti può insegnare molto di come sei fatto, ti può spingere anche più in là rispetto al modo anche superficiale in cui viviamo la nostra vita. La considero anche una opportunità. Non ti dico che arrivo a essere grato nei confronti del cancro, però non la considero una battaglia. L’ho detto più volte. Se mi mettessi a fare la battaglia col cancro ne uscirei distrutto. Lo considero una fase della mia vita, un compagno di viaggio, che spero prima o poi si stanchi e mi dica Ok, ti ho temprato. Ti ho permesso di fare un percorso, adesso sei pronto. Siamo qui per cercare di capire il senso della vita e io ti dico, ho paura di morire”. Ecco, magari a qualcuno questi pensieri di Gianluca Vialli potranno sembrare non propriamente inerenti al tema affrontato in questo nostro articolo, tuttavia, riteniamo che il senso della vita sia riflesso proprio in ciò che l’uomo stesso è; e cioè nell’incapacità di capire che la sofferenza della malattia è qualcosa che fa parte della vita stessa, proprio come nascere e poi morire, mentre la guerra non si può umanizzare come fatto di vita, ma di morte provocata dall’uomo per niente. Per nulla!
Salvino Cavallaro