“La Deontologia nell’informazione scientifica e sanitaria: obiettivi e necessità prima e dopo la pandemia”. E’ il titolo dell’ultimo corso di aggiornamento e formazione per giornalisti, cui ho partecipato con vivo interesse. E’ il giornalismo scientifico che oggi più che mai assume un grande interesse mediatico nell’informazione corretta. Molti sono stati i punti interrogativi che hanno suscitato in me i dubbi di scrivere senza essersi informati prima da fonti scientifiche sicure e, soprattutto, tenendo sempre presente che ogni pubblicazione errata è fuorviante per chi legge e acquisisce molta confusione mentale. La situazione di emergenza che stiamo vivendo in questi anni, ha più che mai mostrato quanto il ruolo dell’informazione sia di vitale importanza all’interno di una società molto complessa. L’informazione è il tassello necessario non solo per sentirsi ancora parte di una comunità, ma anche per dare un senso alle proprie giornate e allo stile di vita che si è costretti a imparare in tutta fretta. Per questo l’informazione deve essere corretta, perché la lotta al Covid 19 passa anche attraverso l’impegno giornalistico di comunicare esattamente dati e informazioni che la scienza ci fornisce. Ed è stato detto a chiari lettere che per noi giornalisti esistono le Carte deontologiche a ricordarcelo: “L’informazione deve rappresentare la dignità umana e deve essere verificata, sia essa informazione scientifica o di cronaca, perché la narrazione della realtà deve sempre rispettare i suoi protagonisti, siano essi malati, minori o donne”. E’ il codice deontologico della professione che ce lo impone. Tutto ciò ha richiamato in me riflessioni, doveri e grande rispetto per chi legge il testo che talora non rispecchia esattamente la realtà. Un qualcosa che, buttata giù in maniera frettolosa e semplicistica può far danno piuttosto che fungere come cultura del sapere e quindi farsi un’idea reale sull’attualità. Ma ciò che mi ha appassionato ancor più è stato il ricordo di quel grande giornalista che risponde al nome di Gigi Ghirotti, l’autore di grandi reportage che decise di curarsi negli ospedali pubblici per vivere le grandi sofferenze dei malati più umili. Raccontò con coraggio il suo lungo calvario di ammalato di cancro in una stanza d’ospedale, dove i giorni trascorrevano lenti tra interminabili cure e denunce di strutture inadeguate alla dignità di pazienti ridotti a essere un numero di letto d’ospedale. “Da quasi un anno m’insegue un odore d’etere, d’alcol, d’antibiotico, di lisoformio, e questo cocktail olfattivo mi pizzica entro le nari, m’inzuppa fino alle ossa, mi s’è attaccato fino alla pelle….” Sono frasi, parole scritte da Gigi Ghirotti sui tanti articoli scritti per “La Stampa” di Torino, in cui si evidenziava la sofferenza, ma anche la mancanza di un’adeguata assistenza in malati gravi, dove il cancro proseguiva velocemente il suo maligno percorso alla completa distruzione della persona. E Gigi Ghirotti, pur debilitato dalla malattia, proseguì fino all’ultimo respiro nel suo giornalismo d’inchiesta per far conoscere all’esterno di quell’ospedale di Torino, quale fosse la realtà cui gli ammalati erano sottoposti negli ultimi giorni della propria vita. E allora ho pensato come il giornalismo d’oggi – in cui la pandemia e il lungo periodo di emergenza sanitaria che stiamo vivendo spesso con angoscia – possa mai paragonarsi a quel giornalismo eroico di Gigi Ghirotti, il quale è rimasto nel tempo come emblema di coraggio e grande professionalità. Quanti di noi, approfittando del momento così delicato, hanno invece pensato opportuno di farsi pubblicità e promuovere la propria persona, apparendo in tanti salotti televisivi senza magari avere le basi sufficienti per disquisire opinioni atte a fare informazione corretta. E allora penso che noi giornalisti siamo un veicolo di comunicazione giusta, vera, attendibile, soltanto se ci mettiamo al servizio della comunità con dati scientifici che devono essere prima studiati e verificati più volte. Proprio come impongono le Carte deontologiche di una professione che troppe volte davvero prendiamo sottogamba.
Salvino Cavallaro