«Sono passati 65 anni, spesi 960 milioni di euro, coinvolti circa 300 progettisti, 100 tra società, enti, atenei. Ma ancora da Messina a Villa San Giovanni ci vuole il traghetto. Per 3,3 km un’ora, se va bene». Comincia così un dossier di Unindustria Calabria, Sicindustria, Confindustria Catania e Confindustria Siracusa, in cui si ribadisce che «non si può parlare di futuro e non si può parlare di Italia senza ponte».
Il Ponte sullo Stretto è costato, solo al pensarlo e progettarlo, quasi un miliardo. La cifra, affermano, è stata calcolata dalla Corte dei Conti: la Società Stretto di Messina SPA ha speso dal 1981, anno della sua costituzione, al 2013, anno della decisione di liquidarla, 958.292 milioni di euro. A questi vanno sommati altri sei milioni dal 2013 al 2016. La sospensione delle attività nel biennio 2007-2008 è costata, paradossalmente, 160,612 milioni. Nel 2013 è stata decisa la liquidazione della società, che è costata quasi due milioni l’anno nel 2014 e 2015 e 1,5 milioni per il 2016. Ancora oggi la società «è attaccata al respiratore artificiale di un commissario liquidatore che percepisce un compenso annuo di 160 mila euro oltre alle spese legali di un contenzioso giudiziario con l’affidataria dei lavori Eurolink». La causa è ancora in corso.
Il Ponte, spiega il dossier potrebbe essere costruito in sei anni, con un costo di 8,5 miliardi. Vivrebbe almeno 200 anni, nel corso dei quali la Sicilia ridurrebbe una condizione di insularità, oggi ancor più pesante a causa del Covid e del caro prezzi dei voli, ma in tempi normali già grave: 4-5 miliardi di euro l’anno secondo una stima della Regione Siciliana. I ricavi dalla realizzazione e dall’uso dell’infrastruttura, dai pedaggi al gettito fiscale, indicano, al contrario, un tasso di rendimento economico intorno al 9%;
un aumento dell’occupazione in 100.000 posti di lavoro all’anno; un aumento della produzione di beni e servizi intermedi in sei miliardi di euro; un aumento dei consumi derivante dall’aumento del reddito di chi partecipa alla costruzione dell’opera, il mantenimento di un alto livello di occupazione; una riduzione dei costi di trasporto e la totale capacità di assorbimento della domanda di attraversamento, una maggiore facilità nella mobilità urbana tra le due sponde, corrispondente ad una domanda di migliaia di spostamenti giornalieri per motivi di studio o di lavoro, e vantaggi derivanti dalla riduzione del servizio traghetti, in termini di disinquinamento delle acque e di protezione delle coste e dell’ecosistema marino. Inoltre, l’Alta velocità verrebbe prolungata fino all’isola, con i benefici, afferma il dossier, già visti in altre dodici province italiane, i cui capoluoghi dotati di stazioni Alta velocità hanno assistito ad un incremento del Pil del 10% dal 2008 al 2018, contro il 3% delle province sprovviste di tale servizio. A conferma di una relazione fra Tav e Pil il dato intermedio delle città che non hanno stazione Tav ma distano un’ora dallo scalo: 8% nelle regioni ricche, 6% in quelle povere.
Il ponte serve, concludono gli imprenditori. Ma, precisano, «per porre rimedio alle tortuosità del passato serve un programma che si articola in tre punti principali:
un piano di date e scadenze certe e indifferibili; una tabella di marcia rigorosa agganciata a un sistema di responsabilità per gli impegni non mantenuti: chi sbaglia paga;
un piano di spesa complessivo e comprensivo di finanziamenti pubblici e privati; una gestione commissariale che garantisca flessibilità e celerità e rispetto dei termini durante tutte le fasi di progettazione e di realizzazione».